Una volta formulata l’eccezione di prescrizione presuntiva, il debitore è tenuto solo a dimostrare il decorso del termine previsto dalla legge, mentre spetta al creditore, se vuole vincere la presunzione a suo carico, provare che il suo diritto non è stato soddisfatto. Tale prova, salvo l’ammissione di non pagamento da parte del debitore, può essere data solo a mezzo del giuramento decisorio a costui deferito, con la conseguenza che, una volta che questo mezzo istruttorio sia stato ammesso, è solo alla stregua della dichiarazione resa dal giurante che il giudice, senza alcun potere di valutarne la veridicità e di sindacarne l’attendibilità, deve decidere la lite.
“…in caso di inesatto trattamento a mezzo stampa di dati personali che non determini giudizi di disvalore, l’unico diritto che compete al soggetto interessato è quello alla rettificazione ex art. 8 della legge sulla stampa, diritto esercitabile giudizialmente ai sensi dell’art. 700 c.p.c., in caso di mancato o insufficiente spontaneo adempimento. La mancata pubblicazione della rettifica o la sua pubblicazione con modalità diverse da quelle previste dalla disciplina sulla stampa (“per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche …sono pubblicate, non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono” – art. 8 comma 2 L. n. 47/1948 – n.d.r.) non costituisce, infatti, titolo autonomo per ottenere il risarcimento di pretesi danni.
A norma del combinato disposto degli artt. 136 e 137 del D.lgs. n.196/03, il trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche è effettuato senza il consenso degli interessati, nei limiti del diritto di cronaca. A norma dell’art. 139 del medesimo D.lgs. il trattamento deve avvenire nel rispetto del codice deontologico elaborato d’intesa tra il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed il garante della ^privacy^, che all’art. 1 premette che le norme in esso contenute sono volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con i diritti dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa, e all’art.6 si precisa che la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto.
Il diritto alla riservatezza tutela situazioni e vicende private dalla conoscenza pubblica e si basa sulla fonte normativa dell’art. 2 della Costituzione. La violazione del diritto alla riservatezza dà luogo a fatto illecito con effetti pregiudizievoli, tuttavia al predetto carattere illecito non si riconduce un’automatica risarcibilità atteso che il pregiudizio, morale e patrimoniale che sia, dev’essere provato secondo le regole ordinarie. La parte che ne chiede il risarcimento deve in primo luogo provare l’illiceità della condotta posta in essere, quindi il pregiudizio alla sua sfera patrimoniale e/o personale, quale ne sia l’entità e quale che sia la difficoltà di provarla. Il danno risarcibile deve risultare, inoltre, effettivo e diretto, anche futuro, purché assolutamente inevitabile nel suo successivo verificarsi.
Il diritto all’identità personale di un soggetto si riassume nel diritto alla propria immagine sociale, ossia nel coacervo dei valori intellettuali, professionali, religiosi di cui l’individuo è portatore e che lo rappresentano nel contesto in cui vive. La lesione del diritto all’identità personale non è ravvisabile in qualsiasi inesatta rappresentazione di vicende comunque collegate ad una determinata persona, ma soltanto in quelle non veritiere rappresentazioni della realtà portanti una distorsione della personalità dell’interessato, e tale non è l’errata attribuzione di un legame di parentela con una persona, tra l’altro, universalmente stimata, non comportando una distorsione della personalità dell’interessato suscettibile di proiettare sul medesimo una connotazione negativa e quindi un pregiudizio.
La cessazione della materia del contendere si verifica solo quando nel corso del processo sopravvenga una situazione che elimini una posizione di contrasto fra le parti, producendo la caducazione dell’interesse ad agire e a contraddire, facendo quindi venir meno la necessità della pronuncia del giudice. Non può considerarsi cessata la materia del contendere per sopravvenuta carenza di interesse delle parti se non quando i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione e sottopongano al giudice decisioni conformi.
Fondamento dell’opposizione all’esecuzione può essere tanto la contestazione delle condizioni della singola azione esecutiva, quanto la contestazione del titolo esecutivo o del precetto, sia in ordine al credito ivi consacrato, sia in relazione ai profili di inesistenza documentale sia per ciò che attiene ai requisiti essenziali del titolo e del precetto. In particolare, l’opponente può, nell’opposizione all’esecuzione, addurre motivi di contestazione del credito consacrato nel titolo esecutivo, senza negare l’esistenza del titolo medesimo ma, qualora si sia in presenza di titolo giudiziale, i motivi di opposizione urtano contro il giudicato, ovvero non possono riguardare fatti che avrebbero potuto essere addotti nelle impugnazioni (in tal senso Cass. n. 43/1974). Il giudice dell’opposizione deve, in tal caso, limitare la propria indagine al titolo esecutivo, ma non può esercitare il suo controllo sul contenuto intrinseco di esso che è fonte del diritto accertato.
Deve ritenersi all’indebito l’inserimento in atto di precetto delle due voci tariffarie “consultazione con il cliente” e “corrispondenza informativa con il cliente” in quanto non sono ricomprese nella tabella B II del D.M. 8.4.2004 n. 127 relativa al processo di esecuzione.
Deve ritenersi all’indebito l’inserimento in atto di precetto delle due voci tariffarie “consultazione con il cliente” e “corrispondenza informativa con il cliente” in quanto non sono ricomprese nella tabella B II del D.M. 8.4.2004 n. 127 relativa al processo di esecuzione.
Il verbale di assemblea (da ritenersi assimilabile anche a quello di un eventuale consiglio di disciplina) offre una prova presuntiva dei fatti che afferma essersi in essa verificati, sicché spetta a colui che impugna la deliberazione assembleare (o nel caso in esame, la delibera del consiglio di disciplina) di dimostrare la non veridicità di quanto riferito nel relativo verbale. [Nella specie, trattavasi di verbale del consiglio disciplinare di una associazione di volontariato].